Intervista a cura di Francesco Maria Menghi.
Nato a Brescia ma spagnolo di adozione, con la nazionale spagnola di basket della quale è coach dal 2009 (con una breve interruzione tra il 2013 e il 2014) ha vinto 4 Europei, 1 Mondiale e 2 medaglie olimpiche.
Arriva in Spagna nel 1997 per rimanerci fino al 2008: due stagioni a Vitoria, tre al Real Madrid e cinque al Malaga condite da due vittorie della Liga ACB e due della Copa del Rey. Che Spagna trova al suo arrivo, un paese molto diverso da quello attuale?
Sicuramente una nazione in grande espansione ed in costante crescita. Un paese con una grandissima energia positiva, con la forza di chi veniva da molti anni in cui aveva vissuto al di sotto dei grandi paesi europei e che aveva ambizione, voglia, desiderio e grandi personaggi con leadership e capacità di guidare questo processo.
Dal punto di vista sportivo, come diretta conseguenza di questa grande energia, si percepiva un grande interesse per la promozione dello sport e si assisteva alla costruzione di impianti sportivi di piccolo, medio e alto livello praticamente ovunque. Lo sport era considerato un’eccellente mezzo per proiettare la Spagna più in alto di quanto non fosse nella considerazione internazionale e vennero perciò effettuati grandi investimenti sia a livello pubblico che privato.
Era un piccolo ascensore che saliva in alto e, quando decisi di iniziare a studiare lo spagnolo ancor prima di lasciare l’Italia, era perchè avevo avuto la percezione che fosse la più importante realtà in crescita ed in espansione. Il tutto tenendo ovviamente in conto anche la pallacanestro che era il mio ambiente di lavoro.
Quale è invece, professionalmente parlando, il suo miglior ricordo di questi anni “spagnoli”?
Ciò che mi ha dato maggior soddisfazione è stata probabilmente l’ammirazione e l’invidia che la struttura delle nazionali spagnole, dalle giovanili alla maggiore, producono nel mondo della pallacanestro.
È stato un lavoro lungo e poco appariscente per il quale tante persone si sono impegnate e che ho avuto la fortuna di guidare avendo grande disponibilità, fiducia e carta bianca da parte della federazione oltre ad eccellenti collaboratori che hanno sposato la causa e che ancora oggi la portano avanti dal momento che la posso seguire meno direttamente.
In quei 7/8 anni ci si è impegnati per la ristrutturazione e la creazione di una piramide dai bambini fino alla prima squadra in cui ognuno cresce e passa allo step successivo avendo la sensazione di percorrere un unico cammino fatto di passi più grandi o più piccoli a seconda della maturità.
I trofei sono invece difficili da paragonare l’uno con l’altro, sono tutti sofferti e con un grandissimo lavoro di tanta gente dietro.
Nel 2009, mentre allena in Russia, arriva la chiamata della Federazione spagnola per allenare la nazionale all’Europeo di Polonia. Nel corso di questi anni alla guida della Familia ha disputato partite memorabili che rimarranno per sempre nella storia dello sport spagnolo. Ma se dovesse sceglierne tre, quali ricorda con maggior affetto?
Ovviamente le grandi finali in cui si sono vinti europei e mondiali. E poi ci sono partite come la finale delle Olimpiadi persa a Londra nel 2012 contro gli Stati Uniti dove stavamo avanti nell’ultimo quarto, la semifinale del Mondiale 2019 contro l’Australia in cui dopo due supplementari superammo un avversario fortissimo, i quarti, la semifinale e la finale dell’Europeo 2022 che hanno rappresentato un risultato assolutamente imprevisto e che ci hanno dato un’allegria inaspettata, la finale per il bronzo alle Olimpiadi di Rio contro l’Australia risolta all’ultimo secondo da una grande giocata difensiva e la semifinale dell’Europeo 2015 contro la Francia.
Seppur guidata da un grande capitano, la rosa della nazionale che ha vinto i campionati Europei lo scorso settembre non era certamente nè la più talentuosa degli ultimi anni nè tantomeno della competizione. La reputa la più grande impresa della sua carriera da allenatore?
Se rapportiamo le aspettative della vigilia con il risultato finale potremmo anche dire di si.
È difficile fare paragoni, sinceramente credo che sia stato un grande campionato. La chimica venutasi a creare è stata fantastica, molti giocatori sono arrivati al limite delle loro possibilità e la massimizzazione delle risorse ha funzionato bene, pensiamo alla finale contro la Francia che era una squadra che sulla carta – come quasi sempre succede – ci doveva sovrastare ma poi alla fine eravamo avanti di 20.
È stato un trionfo più appariscente per il logico e giustificato scetticismo che ci ha accompagnato fino alla fine sulle nostre possibilità di mantenerci in linea con i grandi risultati che avevamo fatto una volta che la nostra migliore generazione era praticamente uscita di scena.
Nel corso della sua carriera ha allenato vere e proprie leggende della pallacanestro europea e mondiale. Escludendo i giocatori che ancora allena sia a livello di club che di nazionale, chi non potrebbe mancare nel suo quintetto ideale?
È difficilissimo e non mi ci avventuro perchè mi dimenticherei di qualcuno. È una carriera lunga nel corso della quale ho avuto la fortuna di allenare tanti grandi giocatori. Molti non avrebbero il talento per entrare in questi cinque ideali, però si le caratteristiche morali perchè mi hanno dato tanto dal punto di vista umano.
Se considerassimo esclusivamente il talento e scegliessimo Djordjevic- Navarro- Kawhi Leonard- M. Gasol- P. Gasol ci avvicineremmo alla sua Top 5?
Ce ne sono fuori altri, ma ci potremmo sicuramente avvicinare
Come si spiega il boom che ha avuto da inizio millennio lo sport spagnolo e la fatica che sta facendo quello italiano? Pensa sia dovuto al fatto che in Italia manchino strutture pubbliche e sia difficile costruirle o che manchi semplicemente un ricambio generazionale?
Penso che sia una questione culturale. Nella Spagna di allora la scelta di considerare lo sport come un canale non minore ed uno strumento per riuscire ad avere quel riconoscimento e quel rispetto internazionale di cui probabilmente allora non godeva fu una scelta evidente. Fu una scelta negli investimenti pubblici, indipendentemente dalle amministrazioni, e negli investimenti privati a volte incoraggiati dalla sfera pubblica. Ma fu soprattutto una scelta a livello scolare, a livello di presenza di sport nelle scuole e nei programmi scolastici dando protagonismo e mezzi allo sport scolastico per poter sviluppare una funzione di reclutamento e di primo “addestramento”.
Questa funzione, in Italia, è invece assolutamente abbandonata a livello scolastico ed è affidata alla buona volontà delle società sportive che fanno sempre più fatica a sopravvivere a livello economico. Anche perchè una volta esistevano i “vincoli” che permettevano di capitalizzare gli investimenti nel settore giovanile ricavando risorse dalla cessione di queste “promesse” a squadre professionistiche più facoltose, ma ora non c’è più neanche questo. È un esercizio di volontariato e quasi di pura generosità di coloro che ancora investono sulla formazione e sullo sviluppo dei ragazzi.
Tra la presenza dello sport nelle scuole e la qualità delle installazioni, e non mi riferisco solo ai grandi stadi ma anche alle palestre scolastiche e di quartiere, il paragone tra i due paesi è veramente ingeneroso. È triste per un italiano pensare a quanta differenza ci sia tra i due paesi dal punto di vista degli impianti sportivi.
Cosa le manca di più dell’Italia quando si trova in Spagna e viceversa?
Quando sono in Spagna mi mancano le persone, la mia città, i luoghi in cui sto bene. Non sono un nostalgico amaro come carattere, ma ogni tanto è bello tornare indietro con il pensiero e ricordarsi di persone che non ci sono più o passare del tempo con quelle che dall’adolescenza mi accompagnano nel circolo più stretto di amicizie a prova di qualsiasi vicenda geografica, professionale o personale che mi sia potuta succedere nella vita.
In Italia sto bene e vivo bene, a Bologna sono vicino a Brescia e mi sento veramente ben accolto.
E che città spagnola le ricorda invece Bologna dove vive adesso?
La dimensione è media, forse mi ricorda Bilbao con la quale si possono trovare diversi punti di contatto.
Dove si vede a vivere una volta conclusa la carriera? A Marbella o nella sua Brescia?
Seppur con qualche puntata esterna, confermiamo Marbella come residenza familiare permanente.
Suo figlio Alessandro, medaglia d’oro con la nazionale spagnola all’Europeo Under 18 del 2019, gioca a basket negli Stati Uniti da ormai quattro anni. Come ha vissuto il suo avvicinamento e la sua passione per il basket: con distacco per provare a non mettergli troppe pressioni o incoraggiandolo a portare avanti i suoi sogni?
Bisognerebbe chiederlo a lui. Seppur personalmente non eserciti nessuna pressione, la pressione esiste; è nello stato delle cose, nei cognomi e in ciò che la gente pensa e dice. Sicuramente nella parte iniziale della sua carriera è stata una pressione importante perchè, nonostante qualcuno pensasse che il suo nome potesse essere un aiuto, in molte occasioni è stato piuttosto un ostacolo.
Adesso che ha raggiunto uno status di piccolo e probabile professionista al livello a cui saprà arrivare al suo ritorno in Europa ha una propria identità e, indipendentemente dal nome che ha sulla maglia, può fare il giocatore di pallacanestro. Poi vedremo a che livello.
Personalmente ho cercato di essere presente quando ne aveva bisogno, a richiesta, e molto al margine quando il mio intervento non era desiderato. Ma anche così mi rendo conto che non è come per il figlio di Mario Rossi che può fare tutto in totale libertà e senza aspettative e paragoni. Anche perché pure sua madre è stata una giocatrice di altissimo livello internazionale. Lei è un po più passionale ma, a parte nei tiri liberi dove è ossessiva e “feroce”, riesce a dosare il suo desiderio di vedere che a suo figlio vadano bene le cose.
© foto: Virtus Bologna